Bottenighi: alle origini di <a href="https://www.discoverymestre.com/il-borgo-di-marghera-di-vittorio-resto/">Marghera</a>, tra barene e sogni di città giardino — Discovery Mestre
Veduta aerea di Marghera anni '50

Bottenighi: alle origini di Marghera, tra barene e sogni di città giardino

Un territorio lagunare trasformato dall’industria

Un nome che viene dall’acqua

Il toponimo Bottenighi – in passato anche Bottenigo – affonda le sue radici nella storia idraulica della laguna. Secondo alcune ipotesi, deriverebbe dal termine medioevale butin-ucum, che indicava un condotto o sifone costruito sotto i corsi d’acqua per favorire il drenaggio nelle zone paludose. Un nome che già racconta la natura del luogo: un territorio d’acqua e di terra, sospeso fra canali e campi, ai margini sudcirca 1.200 abitanti; quattro anni dopo, con la nascita delle prime fabbriche e il completamento della ferrovia, erano oltre 5.000. Nel 1935 si registrarono 7.599 residenti, e nel 1938 quasi 11.000. Una crescita straordinaria, ma anche disordinata: le infrastrutture non riuscivano a stare al passo con le persone. Le istituzioni faticavano a rispondere ai bisogni essenziali — acqua potabile, fognature, scuole, ambulatori — e molte famiglie si arrangiavano come potevano, costruendo baracche di legno e lamiera nelle zone periferiche. Nacquero così piccoli villaggi informali, spesso privi di servizi: Ca’ Emiliani, Ca’ Sabbioni, Ca’ Brentelle, ciascuno con una propria comunità e una propria dignità, ma segnati da condizioni igieniche difficili e da un forte senso di marginalità.

Questa trasformazione segnò la fine del sogno della “città giardino”. L’ideale di un quartiere ordinato, verde e armonioso cedette il passo alla pressione economica e all’urgenza sociale. La necessità di ospitare lavoratori e famiglie superò ogni principio urbanistico: dove erano previsti viali alberati e orti comparvero cortili polverosi, capanni e costruzioni precarie.

Eppure, dietro le contraddizioni, Marghera continuava a essere un luogo di speranza. Molti operai vedevano in quelle case modeste il simbolo di un riscatto sociale: la possibilità di possedere un tetto, di far crescere i figli in un ambiente nuovo, di partecipare alla costruzione di una città moderna. Le baracche e le villette dei Bottenighi raccontavano la stessa storia, quella di una comunità in movimento, che cercava spazio tra l’utopia e la necessità, tra la promessa del progresso e la dura realtà quotidiana.

Dalla frazione al mito industriale

Tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta, l’identità dei Bottenighi cambiò per sempre. Quella che per secoli era stata una zona di campi e canali, di poche case coloniche e strade fangose, divenne il cuore pulsante di una nuova impresa collettiva: Porto Marghera.

Il nome “Bottenigo” iniziò a scomparire dalle mappe e dai documenti amministrativi. Al suo posto comparve un nome nuovo, più evocativo e moderno: Marghera, che ricordava il borgo di Marghera ma non sappiamo chi e perché prese questa decisione.

Nel 1926, un decreto sancì l’unione amministrativa dei comuni di Mestre, Chirignago, Zelarino, Favaro Veneto e Marghera con Venezia, dando vita alla cosiddetta Grande Venezia. L’obiettivo era ambizioso: costruire una metropoli moderna, capace di competere con le grandi città europee, dove la parte storica custodisse l’arte e la cultura, mentre la terraferma ospitasse l’industria e la nuova popolazione operaia.

A Marghera, lo sviluppo industriale procedeva di pari passo con quello urbano. Le banchine portuali si allungavano nel canale Brentella; si innalzavano le ciminiere delle raffinerie, dei cantieri e delle industrie chimiche; la ferrovia e la rete stradale si espandevano fino a Mestre. Attorno ai Bottenighi si delineava un paesaggio inedito: accanto alle villette del primo quartiere urbano comparivano i capannoni, i binari, i magazzini e le fabbriche, che di notte illuminavano il cielo con bagliori arancioni e colonne di vapore.

L’antico sogno di una città giardino si trasformò così in un mito industriale, il simbolo del progresso italiano fra le due guerre. Marghera divenne il luogo dove la laguna si faceva acciaio, dove il lavoro plasmava la geografia e ridefiniva l’identità stessa di Venezia. Per molti, era il segno di un nuovo inizio: la possibilità di costruire una vita migliore; per altri, l’inizio di una perdita irreversibile — quella del paesaggio, del silenzio, della memoria rurale.

Eppure, anche in questa metamorfosi, sopravviveva qualcosa dello spirito originario dei Bottenighi. Nei nomi delle vie, nei ricordi delle famiglie venute “dal niente” per lavorare in fabbrica, nei canali che ancora scorrono accanto ai vecchi tracciati di via Bottenigo, restava viva la memoria di un territorio nato due volte: prima come terra di confine, poi come città del futuro.

Memoria di un paesaggio scomparso

Oggi, chi attraversa via Bottenigo o percorre le strade industriali di Marghera fatica a immaginare ciò che questo luogo è stato. Le grandi arterie di asfalto, i depositi, i recinti metallici e le torri di raffreddamento hanno cancellato quasi ogni traccia del paesaggio originario. Eppure, sotto la coltre di cemento, il ricordo dei Bottenighi continua a respirare.

Restano i nomi: via Bottenigo, Ca’ Emiliani, Villabona — frammenti di una geografia antica, sopravvissuti alle trasformazioni del secolo. Restano le memorie orali, tramandate da chi vide nascere le prime case, o da chi arrivò con la valigia di cartone per lavorare in porto, trovando qui una nuova patria. E restano, soprattutto, le mappe e le fotografie che raccontano un paesaggio scomparso: campi attraversati da canali, case coloniche con tetti di coppi, argini erbosi che scendevano verso le acque calme della laguna.

Quel mondo, fragile e rurale, fu sacrificato sull’altare del progresso industriale, ma la sua eco non è svanita. Ogni volta che un vento umido soffia dal mare e si mescola all’odore del ferro e del gas, sembra di sentire il dialogo fra due tempi: la Venezia antica e la Marghera moderna, la laguna e la fabbrica, la memoria e la materia.

Oggi, mentre la città riflette sul proprio futuro, riscoprire la storia dei Bottenighi significa tornare a interrogarsi su cosa voglia dire davvero abitare un luogo. Significa ricordare che anche gli spazi industriali, nati dal lavoro e dal sacrificio, conservano un’anima; e che dietro ogni toponimo, dietro ogni strada, si cela un frammento di umanità, un racconto che merita di essere ascoltato.

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Bibliografia

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